Il corpo di Santa Filomena, vergine e martire, fu ritrovato il 25 maggio 1802 nelle catacombe di Priscilla, a Roma. La tomba era sigillata da tre mattoni, su cui erano incisi la scritta PAX TECUM FILUMENA e quattro simboli: due ancore, tre frecce, una palma e un giglio. I simboli si riferiscono al martirio della Santa di cui, però, non si hanno documenti: della vita conosciamo soltanto il racconto di una visione di Suor Maria Luisa di Gesù (1799 – 1875), mistica e grande devota di Santa Filomena.

LA VITA – Fu la Santa stessa a narrare in sogno alla suora la sua vita e il suo martirio. I genitori, sterili, – il padre re di un dominio della Grecia e la madre di sangue reale – imploravano i numi perché concedessero loro la grazia di avere un figlio. Un medico romano cristiano, di nome Publio, promise ad essi la prole, se avessero ricevuto il battesimo. In effetti i coniugi, convertitisi al Cristianesimo, furono allietati dalla nascita di una femmina, cui imposero il nome di Filomena, figlia della luce della grazia battesimale.
All’età di tredici anni Filomena fu portata dai genitori a Roma, dove il padre si era recato per concludere un patto di pace con l’imperatore Diocleziano (284 – 305 d.C.), intenzionato a muovergli guerra. Questi, invaghitosi della ragazza, promise al padre rapporti pacifici, se avesse acconsentito al suo matrimonio con la figlia. Nonostante il consenso dei genitori, Filomena rifiutò l’offerta per aver fatto voto di verginità. L’imperatore, non avendo ottenuto nulla con le buone maniere, ricorse alle cattive: la rinserrò, incatenata, in carcere. Al trentasettesimo giorno di prigionia, alla ragazza apparve la Madonna col Bambino, che la incoraggiò, promettendole protezione. Diocleziano ricorse a tormenti più crudeli per farla retrocedere dal suo proposito. Fu flagellata, calata nel Tevere con un’ancora legata al collo, trapassata da frecce infuocate: assistita dagli Angeli, superò incolume le terribili prove. Alla fine fu decapitata: era il venerdì del dieci agosto quando volò, trionfante e gloriosa, verso il Cielo.


LA TRASLAZIONE DEL CORPO A MUGNANO DEL CARDINALE – Il neo-nominato vescovo di Potenza, Mons. Bartolomeo De Cesare, chiese al suo amico Don Francesco De Lucia, prete di Mugnano del Cardinale, di accompagnarlo a Roma, dove doveva essere consacrato vescovo il 30 giugno 1805. Don Francesco in quell’occasione gli espresse il desiderio di avere il corpo di una Santa Martire, desiderio che si realizzò ben presto, il giorno 8 giugno: il Papa Pio VII esaudì la richiesta del vescovo che, ottenuto in dono il corpo di Santa Filomena, lo donò a sua volta all’amico. Il 2 luglio le reliquie della Martire furono trasportate prima a Napoli e dopo un mese, il 10 agosto, furono trasferite a Mugnano del Cardinale, nella Chiesa di Maria SS. Delle Grazie.

IL CULTO DI SANTA FILOMENA A CASTELVETERE – Il culto di Santa Filomena si diffuse rapidamente non solo in Campania e in Italia, ma anche in Europa, soprattutto in Francia, dove il Curato d’Ars si adoperò alla costruzione di una Basilica in suo onore.
A Castelvetere la devozione verso la Santa Martire fu particolarmente profonda, viva e sincera, tanto che lo stesso Padre Don Francesco De Lucia, chiamato spesso in paese per tenere gli esercizi spirituali, poté affermare: “In Castelvetere la s. m. [santa martire] ritrovò gran fede alla sua santità, e gran fiducia nel suo patrocinio, onde in questo popolo si sono veduti grandi, e pubblici miracoli alla sua invocazione”. Dal 1824 al 1832 a ben 62 femmine fu imposto il nome di Filomena.
Rosa Saggese fu la prima devota e promotrice del culto di Santa Filomena. Nacque il 20 gennaio 1759 da Nunziante e da Teresa Orecchia. Il 14 marzo 1785 sposò Salvatore Corso di Montemarano, di cui rimase vedova. La sua famiglia era benestante: il padre, muratore, il più grande imprenditore di Castelvetere nel secolo XVIII, costruì ed era proprietario di molte case, possedeva estesi e fertili terreni agricoli, e anche un mulino che doveva essere un piccolo pastificio “con torchio con tutti i suoi attrezzi da far maccaroni”. Si comprende bene, pertanto, come Rosa avesse le possibilità di essere una grande benefattrice: fece costruire, nella Chiesa Madre di Castelvetere, una cappella con altare in onore della sua Santa. L’altare fu consacrato il 17 dicembre 1828, come annotò l’Economo Curato, Don Nicola Bimonte, nel libro dei Battezzati: “L’Ill.mo e Rev.mo Monsig.re de Nicolais degno ves.vo di q.a Diocesi di Nusco a richiesta di me infrascritto ha consacrato solennemente l’Altare alla Gloriosa Vergine e Martire S.a Filomena in questo giorno di mercoledì”.
Grandi devoti furono pure i coniugi Domenico Moccia e Giustina Cotillo, i primi a dare il nome di Filomena alla loro figlia, nata nel 1824, dopo un parto difficile. Di tanti episodi, in cui a volte si verificarono veri e propri eventi prodigiosi, registrati e narrati da Don Francesco De Lucia nei primi due tomi, pubblicati nel 1834, della “Relazione istorica della Traslazione del Sacro Corpo e miracoli di Santa Filomena Vergine e Martire da Roma a Mugnano del Cardinale”, riportiamo quelli dell’arrivo, da Mugnano del Cardinale a Castelvetere, il 12 maggio 1829, del quadro di Santa Filomena, portato dallo stesso Don Francesco De Lucia, e della grandiosa processione che ne seguì dodici giorni dopo, durante la quale si verificarono fatti straordinari, di cui fu testimone sempre lo stesso sacerdote, che si era trattenuto a Castelvetere per tenere gli esercizi spirituali.
Del prodigioso quadro, purtroppo, si sono perse le tracce dopo il terremoto del 1980; a Castelvetere è custodita ora una statua di Santa Filomena, che veniva esposta solennemente il 13 agosto, festa della Vergine Martire. Nella metà del secolo scorso, organizzatrice della festa, “ ‘a mast’ ‘e festa”, era Teresina, detta “ ‘a Póllece ”.


ARRIVO DEL QUADRO DI SANTA FILOMENA A CASTELVETERE (martedì, 12 maggio 1829)
“Di tante cose dette di questo popolo, rimane a dire il più mirabile portento, che farà stupore a chi legge. Per le tante grazie senza numero ottenute dall’intercessione di s. Filomena, dalla fede di tal popolo si era eretta cappella, e altare di marmo consacrato a Dio sotto il titolo della s. m. dal vescovo de Nicolais molto divoti di lei. Si era fatto un nobile, ed elegante quadro in Mugnano sul sacro corpo, innanzi al quale fu poi da me benedetto solennemente, per trasferirsi in tale cappella. Si aspettò il tempo di più mesi, perché si dovevano fare gli esercizii spirituali a quel popolo da me, e due miei compagni missionarii, e sono d. Paolo Ippolito mio paesano, e il canonico d. Giovanni Mango di Ariola, e da noi si portò coverto un tal quadro. Questo era stato osservato da tutti i nostri cittadini, e quando si formava dal pittore, e quando fu esposto, e come ritratto del sacro corpo, fu dipinto cogli occhi ambedue serrati, come dormiente. Era stato anche osservato da tanti di Castelvetere, ch’erano stati di passaggio per questi luoghi nei mesi, che quello fu in Mugnano, essi poi al dipartirsi decantavano la rara bellezza di tal quadro, e tutti ardevano di desiderio di presto vederlo, onde al nostro arrivo, che fu alli 12 di maggio, tutto il popolo ci venne all’incontro [lungo la via “Napoletana”] circa 4 miglia [1 miglio = 1851 m] distante da Castelvetere, cantando a diversi cori canzonette in onore alla s. m., le verginelle le più distinte del paese lo portavano sul capo, più innanzi noi con tale trionfante moltitudine si presentò la più distinta gentildonna nomata d. Giustina moglie di d. Domenico Moccia altrove citato, la quale era stata più volte liberata dalla morte, ed essa volle portare su il suo capo il quadro della sua liberatrice, tenendo a suo fianco due sue figliuole, una di 12 anni nomata Felicia [in verità aveva 9 anni: nacque il 17 dicembre 1820], l’altra di meno età, chiamata Filomena [nacque l’11 luglio 1824], che accompagnavano la madre con torcette accese, e i canti sempre più s’infervoravano, e facendo rimbombare tutte le valli, e boschi per i quali si viaggiava. Intanto con tutte le brame ardenti quelle divote turbe anelavano presto vedere il decantato ritratto della loro avvocata; ma io che voleva disporre meglio le anime colli spirituali esercizii, e non distrarle dalle prediche e sacramenti, quando ritrovai una chiesetta [la Cappella del cimitero extra moenia, costruita nel 1794] circa un terzo di miglio distante dal paese, così coverto qual era, rinserrai il quadro, e posi in gelose mani la chiave in deposito con moltissima e generale afflizione, che più disponeva i cuori alli divoti desiderii, e giunti noi alla chiesa arcipretale [la Chiesa di “Santa Maria Assunta”] s’incominciarono con massimo fervore i santi esercizii. Ma qui non devo preterire senza rea ingratitudine una grazia da noi sacerdoti ricevuta in quel viaggio. Mentre appena noi entrati eravamo nei boschi, dalla cima di una montagna [il monte “Tuoro”] calava una comitiva di 12 persone con armi, che ci veniva di fianco ad uscirci all’incontro con coccarde rosse alli cappelli, onde furono da noi senza sospetto alcuno credute persone di servizio alla comune sicurezza, come già vi erano in ogni popolo. Prima di avvicinarsi a noi, diceva spesso il canonico, che si sentiva presagire dal cuore disastri funesti, e perciò era sorpreso da spavento senza saperne la cagione, ed era assaissimo allegro prima di questi momenti. Benché eravamo in quel tratto senza compagnia, andava però innanzi a noi il quadro sul capo di due zitelle onestissime venute da Castelvetere sino in Avellino a riceverlo, e sino portarlo all’incontro, ora raccontato da noi. Io dunque per incoraggiare il compagno, diceva: eh vile, non miri, che portiamo innanzi una guerriera, che ha vinto il mondo armato, e l’inferno. Io non so capire il motivo del tuo timore. Essi intanto erano vicinissimi, e sentivano i nostri discorsi, e invece di fermarci, ci fiancheggiavano nel bosco, aspettandoci ad un varco il più opportuno al loro nero disegno, ma le turbe, che ci vennero all’incontro ci salvarono, essendo quelli assassini di un’indole d’inaudita scelleraggine, quale sfogarono ore dopo il nostro passaggio, in un alloggio frequentato da passaggieri circa un miglio distante da Castelvetere [la Taverna di Santa Lucia?], con crudele spogliamento, e con nefande, e orribilissime sevizie, onde meritarono dal governo un vicino esterminio”.

PROCESSIONE (domenica, 24 maggio 1829)
“Terminati da noi poi gli esercizii con pomposa misericordia del Signore per i meriti della s. m. si ordinò nella cappella, ov’era in deposito il quadro, una nobile, e vistosa machina, sopra di cui si doveva collocare il sospirato quadro per portarlo di là in processione. Si era sparsa la voce di questa religiosa funzione, e gente di più popoli, ed ecclesiastici vennero a quel paese, e vi furono anche canonici della vicina cattedrale di Montemarano. Ora terminata la comunione generale di tutto il popolo, si formò una processione di poco meno di duemila persone [Castelvetere contava circa 2000 abitanti], distribuite in diversi cori, ma tutti con corone di spine, e con istrumenti di penitenza, ed ogni coro cantava diversa canzonetta, e con tuono diverso, e grave. Precedeva una turba di fanciulli innocenti, poi seguiva una numerosa moltitudine di zitelle, appresso un drappello di verginelle della santa vestite in tempo degli esercizii con corone di fiori sul capo, quali portavano anche tutte le fanciulle, che si chiamavano Filomene, benché erano bambine in fascie in braccio alle madri, lo che era una ineffabile tenerezza. Seguiva indi uno squadrone di adulti, e poi gentiluomini vestiti con gala, ma con corone di spine in capo, e con torce accese, poi i sacerdoti [Tommaso Bimonte, Angelo Mele, Giuseppe Nargi, Sabato Bimonte, Piergaetano Moccia, Gennaro Matteis, Vincenzo Caporale] in forma, e l’arciprete [Don Nicola Bimonte] con piviale, e colla reliquia della santa [cento anni dopo era ancora conservata in teca assieme alle reliquie di San Vincenzo Ferreri e di San Gerardo Majella], preceduta da musicali istrumenti, e dopo seguivano anche coronate di spine tutte le vedove, e maritate, e nessuno dell’uno, e l’altro sesso volle restare in casa. Ognuno può concepire la maestà, e il trionfo di questo religioso spettacolo, che fu con un evidentissimo miracolo applaudito anche dal cielo. O santa! O veneranda, o amabile, e cara la nostra religione! Era piovosa, e tempestosa assai la stagione, nel terminarsi la comunione generale, era arrivato il momento di una tempesta, che aveva oscurato il mondo, e si pensava impossibile la vicina processione. Venuta a mia notizia questa per altro ragionevolissima risoluzione, io risposi, che l’acqua non era fuoco, ci serviva per penitenza dei nostri peccati; ma non tanto timore, la santa è solita mostrare il suo potere in queste circostanze. Sono innumerabilissimi questi casi, in cui il cielo ha mostrato ai popoli il credito di lei presso Dio, e n’è restata la memoria nei luoghi. Infatti così fu anche in questa occasione, in cui vi erano tanti ecclesiastici, e plebe diversa per i testimonii, poiché appena si toccarono le campane per il segnale della processione, svanì ogni nube, e tuono, e lampo. Devo dire di più, che dimenticai notare nella passata edizione, che in quella mattina feci collocare su il campanile una campana mediocre già fusa mesi prima in onore di s. Filomena colla sua immagine, e questa fu suonata prima delle altre con giubilo di tutti, e con fede contro il temporale inclemente. Ma può dire alcuno, che ciò poteva avvenire senza miracolo. Sia così, ma li divoti cattolici non la pensarono così, che vi erano a migliaje di tutti i ceti, e capacità a discernere, e tra questi dotti curati, canonici, ed ecclesiastici di quella regione, e in quella circostanza di vera gloria di Dio, e li prodigii seguiti con pomposa pubblicità ne sono pruova convincentissima. Uscito adunque il primo Crocifisso, ch’era il sacro stendardo di ogni coro, il cielo era già sereno, l’aria allegra, sembravaci stare in quel monte, come nel Taborre, e tutti i pensieri erano del cielo, e quelli di questa vita miserabile erano svaniti colle nubi. Chi ciò può capirlo? chi lo vidde, e lo provò. Marciando questo esercito religioso con tanto rimbombo di musica, e di canto, arrivato innanzi alla machina, ov’era collocato il sospiratissimo quadro, in mezzo alla campagna, siccome era veduto uscivano a fiume lagrime di tenerezza; a questo come se fosse intenerita la sacra immagine, o Dio! o stupendissimo prodigio! ecco, che la medesima pittata cogli occhi perfettamente chiusi, apre l’occhio destro esposto al popolo, e resta serrato il sinistro; e con l’occhio miracoloso ispirava vivo affetto, modestia, e somma tenerezza. Ognuno qui da per sé può figurarsi il resto, io non lo esprimo. Intanto postasi in processione la machina, e nel guardarsi meglio il miracoloso occhio, tutte le gentildonne pubblicamente si spogliarono dei loro preziosi ornamenti, e li gittarono su la machina innanzi alla santa, ed appesero vicino a quella anche i veli del loro capo. A loro esempio fecero lo stesso anche le plebee, e le zitelle, che nulla avevano, si spogliarono dei nastri, che usavano per fasciare i loro capelli, e quella machina divenne in questa maniera carica delle spoglie della vanità mondana, che sono le insegne dell’impero di Satanasso, a cui ci fa rinunciare il nostro Dio, e Redentore, prima di darci la grazia del battesimo, e la vera, e sola nobiltà di suoi adottivi figliuoli. O quanto era veneranda, e gloriosa s. Filomena con queste spoglie fatte al mondo, e all’inferno vinti colla sua immagine miracolosa, di quello furono i pagani conquistatori colle spoglie delle nazioni, che portavano con orgoglio, e fasto esposte nei loro cocchi trionfali. Arrivata poi la s. Immagine su di un rialto, ove stava una buona pianura, furono sparati da mille maschi, oltre alcune batterie. Ora mentre stava ivi fermata, incominciò ad aprire l’altro occhio sinistro in qualche linea innanzi a tanti ecclesiastici, e gentiluomini, che per contentare il loro stupore consideravano da vicino l’occhio aperto, e di nuovo si serrò il sinistro, ed uscì una vena dalla fronte sino alla punta del naso, e comparirono tre macchie sanguigne nel viso, ed ecco altri stupori. In questo mentre si presenta pubblicamente un gentiluomo di nome Dionisio Peccerillo farmacista della città di Montemarano, con la sua moglie tutta sparuta di viso, perché era stata inferma sin dalli 2 di febbraro, come confessò innanzi al quadro, ed alla folla, che lo circondava, la quale qualche giorno innanzi sconfidata disse: non vi è medicamento, che mi giova, non vi è santo in cielo, che si muova di me a pietà, Gesù mio, levami da questa vita, più non mi fido di vivere. Subito oppresso dal sonno le comparisce una nobile zitella con due putti graziosi e leggiadri ai suoi fianchi, come è nelle sue statue: essa le domandò severamente: tu sei quella, che non hai ritrovato in cielo un santo, che si movesse a pietà del tuo stato? bacia questa figura di s. Filomena v. e m., e avrai la grazia. Tutta riverente quella gentildonna baciò la figura presentata a lei dalla zitella, e subito i due putti cominciarono a battere fortemente le mani, e gridarono: è fatta la grazia, è fatta la grazia, e in questo strepito si svegliò, e s’intese sana, e svegliò anche il marito per raccontargli l’accaduto, e perciò vennero a ringraziare la generosa medica celeste. […]
Ma ritorniamo al quadro, quale era accompagnato con torcette accese da tutte le maritate, e vedove, che lo seguivano, e che erano nella possibilità di farlo, e poi dopo la processione donarono tutte le candele alla santa, mettendole su la machina. Ora una donna da poco passata a marito voleva, e non poteva dare questo onore alla s. m. tanto miracolosa, e ne sentiva una pena assai viva, ma la santa n’ebbe pietà, e nel ritirarsi col marito, dopo la funzione, tutti estatici, com’erano stati tutti gli altri cittadini, e forestieri, prende la donna la chiave, apre la sua casa, e trova su del letto una delle candele donate alla s. m., e vi era anche la carta intorno posta per pulitezza di chi la portava. A questa vista i buoni conjugi si smarrirono, ma una voce interiore li voleva consolare, dicendo alla moglie: buona donna, ho veduta la tua volontà per me, e non hai potuto, ora io voglio regalare a te questa candela. Non avvezza a conoscere questa voci, la donna tremava col marito, facendo subito restituire la candela alla s. m.; lo che fu innanzi al clero, e al popolo, io la feci mettere in deposito. Un altro umile, e povero fu invitato all’elemosina alla s. m., che si cercava dai più degni gentiluomini per pagare la musica di quel giorno. Egli non aveva altro che una sola moneta di rame, e niente più anche in casa, per il sommo rispetto alla taumaturga la dà, e poco dopo stando in chiesa a vagheggiare la s. immagine, sentiva una voce distinta, e continua mentalmente, che gli diceva: divoto mio, ho conosciuto il tuo buon cuore, ti ho posta in sacca la moneta, spendila per la tua moglie, e non si disturbi la mia festa. Neppure credeva a questi tratti soprannaturali il villano, e non pensava a quelli, tenendoli puri vaneggiamenti di pensiero. Ma poi per distogliersi da quella molestia, mette la mano in sacca, e ritrovò la stessa sua moneta. Tutto tremante, e fuori di sé, in quel punto la portò in sacrestia, e la consegnò all’arciprete innanzi al clero, noi, ed ai gentiluomini, a cui l’aveva consegnata, e fu posta in deposito unitamente alla candela sudetta. I nomi di questi stanno scritti nelli pubblici atti, che qui appresso dobbiamo citare. Anche è degno a scriversi quello, che accadde alla moglie del sindaco d. Pasquale Follo [Pasquale Follo, sindaco dal 1827 al 1832, sposò Rosa Mele il 21 marzo 1807]. Questa portava una torcetta in mano, che si era estinta, aveva fatti tutti gli sforzi per riaccenderla, ma non poté riuscire per la folla impenetrabile, di giungere alle donne innanzi, che le tenevano ancora accese, e vedendo insuperabile la difficoltà, e la processione si avanzava, si affliggeva assai, ed ecco dopo qualche altro cammino si vede accesa la candela nelle mani con rumore, e stupore della folla, da cui era circondata. Tutto ciò accadde nella memoranda giornata dell’esposizione solenne del quadro di s. Filomena in Castelvetere, che fu ai 24 di maggio, giorno di domenica del 1829, e in tal giorno cadeva la vigilia della sua fausta per noi, invenzione in Roma [24 maggio 1802: rinvenimento a Roma nelle catacombe di Priscilla della tomba di Santa Filomena, il cui corpo vi fu ritrovato il giorno seguente]. E perché l’occhio restò aperto, e l’altro chiuso, come lo è ancora, sparsa questa fama, accorsero da diversi paesi in folla i fedeli a venerarlo, o a cercare grazie al Signore per la sua intercessione, e si è aperto ivi un santuario, come se vi fosse il corpo della s. m. Di tutto questo da noi narrato vi sono pubblici e solennissimi atti, ed altri duplicati furono mandati alla nostra chiesa fatti dal clero, e dal sindaco, decurioni [Giovanni di Nargi, Sabato Bimonte, Gennaro Ruggiero, Bernardo de Nargi, Raffaele de Matteis, Nicola Martucci, Giovanbattista Nargi, Pietro Follo, Nicola Sullo], e gentiluomini per la gloria della religione, onore della s. m., e di Castelvetere, in cui il Signore vi ha veduta la vera fede, e vi ha operato maestosi prodigii per intercessione di s. Filomena, che la tengono come loro presentissima avvocata, e tralasciando tante altre meraviglie, veniamo al racconto di altri singolari prodigii anche ivi veduti in questa santa”.

Giovanni Sullo